Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, 28 novembre 2010 «Avevo un bel pallone rosso» è il titolo del lavoro teatrale, che sta riscuotendo un notevole successo in varie città (sotto l’egida del Teatro stabile di Bolzano). La trentenne Angela Demattè, autrice del testo, interpreta la figura della figlia Margherita (Mara), mentre Andrea Castelli interpreta con grande efficacia la figura del «padre» così chiamato senza nome proprio (in realtà si tratta di Carlo Cagol, scomparso poco dopo la morte della figlia). E questo per rappresentare una sorta di «archetipo» della figura paterna nel confronto e nel conflitto generazionale, che si sviluppa dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’70. Una giovane donna di teatro appena trentenne ha avuto dunque il coraggio di affrontare una vicenda drammatica, e con esito tragico, che riguarda un’altra donna trentenne, morta tragicamente dopo un percorso umano, ma anche politico e ideologico, che ha attraversato prima gli anni della contestazione studentesca a Trento e poi gli anni del nascente terrorismo di sinistra Milano (e non solo). Soltanto un grande giornalista trentino, prematuramente scomparso, Piero Agostini, aveva saputo affrontare l’argomento già alla fine degli anni ’70, pubblicando all’inizio del 1980 il libro Mara Cagol. Intervenendo nel dibattito avviato dall’Adige, voglio dire che si tratta di un prodotto teatrale di grande autenticità e umanità, ma senza alcuna compiacenza giustificatrice e, men che meno, senza alcuna mitizzazione postuma. Durante gli «anni di piombo» italiani avevo sempre affermato, anche in Parlamento, che i terroristi non erano «marziani» privi di identità, ma avevano invece una loro drammatica identità politica e ideologica, e anche umana, che bisognava conoscere, anche per poterli sconfiggere politicamente, prima ancora che militarmente (come poi avvenne). La ricerca teatrale di Angela Demattè aiuta appunto a comprendere le tappe attraverso cui si è formata questa identità politica e ideologica di Margherita Cagol, fino alle sue estreme conseguenze, filtrandola attraverso il rapporto difficile e conflittuale col padre e assumendo questo rapporto quasi a paradigma dello scontro generazionale di quegli anni (assai meno conflittuale il rapporto con la madre Elsa, come appare da una testimonianza epistolare del 1969). Giustamente la Demattè scava il retroterra umano sotto gli schemi rigidi dell’ideologia e fa emergere (questa appare la sua lezione implicita) come l’estrema deriva della lotta armata discenda proprio dall’incanalamento delle forti pulsioni umane e sociali (e anche spirituali, forse, considerata la sua formazione cattolica) dentro una rigida e astratta lettura della realtà, con gli occhiali di un forte determinismo ideologico. Per chi, come me, ha conosciuto personalmente Margherita Cagol (insieme a Renato Curcio) negli anni ferventi (dal 1965 al 1969) della contestazione studentesca nella facoltà di Sociologia appena nata (nel 1962), non è difficile ripercorrerne le tappe della formazione umana e politica sia negli studi sociologici, sia nell’impegno generoso dentro il Movimento studentesco di allora. Ma ritorna anche alla memoria la parentesi «marxistaleninista» tra la fine del 1967 e la fine del 1968, attorno alla rivista Lavoro politico di Verona, in aperto contrasto con i fermenti del «dissenso cattolico» e il marxismo critico e antistalinista che invece caratterizzarono il Movimento trentino. Quando Margherita Cagol e Renato Curcio – dopo la laurea di lei con Francesco Alberoni il 26 luglio 1969 e, subito dopo, il loro matrimonio religioso nel santuario di San Romedio il 1° agosto (testimoni Vanni Mulinaris e Italo Saugo, quest’ultimo morto il 16 agosto 2010) – si trasferirono a Milano, iniziò per loro un percorso molto diverso da quello maturato a Trento. Quel percorso li portò a recuperare l’identità ideologica «marxista-leninista», che pure avevano messo in discussione alla fine del ’68, e li condusse lungo un complesso itinerario, che poi sfociò nella scelta della lotta armata. La scelta della clandestinità (e l’assunzione del nome di battaglia «Mara») si verificò pienamente nella primavera del 1972, dopo la scoperta del covo di via Boiardo a Milano (e l’entrata in campo di un altro trentino, Marco Pisetta, risultato poi informatore della polizia e confidente dei servizi segreti, anch’egli poi morto prematuramente). Dal conflitto generazionale al conflitto ideologico fino allo scontro armato, dopo la scelta della clandestinità: un drammatico, tragico itinerario quello di Margherita Cagol. Una donna forte (lo si verificò anche nella liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato, da lei operata nel febbraio 1975) e generosa, ma attratta da una ideologia rivoluzionaria rigida e astratta, priva di sbocchi. Quella scelta ideologica, che si tradusse anche in scelta di vita, la condusse verso un vicolo cieco e alla fine verso la morte cruenta: un esito forse da lei messo nel conto delle possibilità della lotta armata, ma certo non cercato intenzionalmente. Di questo itinerario e della sua tragica conclusione, il lavoro teatrale di Angela Demattè è una testimonianza autentica ma non compiacente: una ricerca dell’umanità dietro lo schermo dell’ideologia, una interpretazione convincente di questa vicenda umana, senza nulla concedere al giustificazionismo o al compiacimento mitologico. Forse ci voleva davvero una donna, intelligente e sensibile, attenta e curiosa, di trent’anni per capire e rappresentare sine ira ac studio il percorso umano di un’altra donna di trent’anni, morta tragicamente trentacinque anni prima. Anche questa volta, come tra gli antichi greci, il teatro può assolvere ad una funzione catartica. Questo intervento di Marco Boato sarà pubblicato anche sul prossimo numero di
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MARCO BOATO |
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